La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 3682/2024, è tornata a pronunciarsi sulla distinzione tra il contratto di appalto ed il contratto d’opera, posto che entrambi i contratti hanno in comune l’obbligazione verso il committente di compiere a fronte di corrispettivo un’opera senza vincolo di subordinazione e con assunzione del rischio da parte di chi li esegue (precedenti conformi Cass. n. 7307/2001 e Cass. n. 12519/2010)
L’esatta qualificazione del rapporto contrattuale è di fondamentale importanza al fine di individuare correttamente il termine decadenziale per la denunzia dei vizi; termine che, nel caso di un contratto d’opera, è di otto giorni dalla scoperta con prescrizione dell’azione entro un anno dalla consegna dell’opera (art. 2226 c.c.), mentre, nel contratto di appalto, è di sessanta giorni dalla scoperta con prescrizione dell’azione entro due anni dalla consegna dell’opera (art. 1667 c.c.).
I Giudici di legittimità, confermando, ancora una volta, un indirizzo consolidato, hanno affermato che la distinzione si basa sul criterio della struttura e della dimensione dell’impresa a cui sono commissionate le opere: se l’esecuzione avviene mediante un’organizzazione di media o grande impresa cui l’obbligato è preposto, si configurerà un contratto di appalto; se, invece, l’esecuzione avviene mediante una piccola impresa (ex art. 2083 c.c.) con lavoro prevalentemente proprio del preposto seppure con l’aiuto di familiari e di qualche dipendente, si configurerà un contratto d’opera.
L’identificazione della natura dell’impresa interessata, ai fini della qualificazione di un contratto come di appalto o di opera, è rimessa al giudice di merito, coinvolgendo una valutazione delle risultanze probatorie e dei necessari elementi di fatto (Cass. n. 27258/2017 e Cass. n. 9459/2011).